Stefano Crespi
Presentazione al volume "Lo sguardo della pittura", Galleria Ponte Rosso Edizioni, Milano 2013 Torna alla pagina "Critica"
Occasione significativa appare l’esposizione (alla Galleria Ponte Rosso) dedicata ad Attilio Melo (mancato nel 2012). Oggi, con più consapevolezza, in questo artista, nel cammino di una lunga esistenza,
possiamo ritrovare il fascino di un orizzonte tematico e una singolarità espressiva.
Attilio Melo è nato a Padova da una famiglia veneziana di artisti, è vissuto a Milano. Ciò che contraddistingue la sua biografia è da una parte l’intensa vita di incontri e di relazioni nel suo studio, e dall’altra parte il viaggio nei luoghi e nelle città che segnano la pittura.
Pare di intuire una riservatezza e l’apertura umana; la fedeltà alle ragioni della pittura e una sorta di segretezza emotiva.
Così sembrano coniugarsi nel vissuto dell’opera il paesaggio e la straordinaria dedizione ai ritratti, la natura e la figura umana, lo spazio dei viaggi e la temporalità dell’esistenza.
Nella vastità iconica del paesaggio, Attilio Melo persegue una propria visione di spazio e tempo: la trascrizione interiore, l’esprit, essenza, poesia, Stimmung, tocco, un’atmosfera perduta. Il paesaggio
qui non si pone nei termini di un “genere”, di una traduzione naturalistica.
Oggi continuamente la riflessione si interroga sulla fine della lingua, il compimento dell’arte, la caduta dell’evento. Il paesaggio invece è sentimento dell’esistenza: l’esigenza di ritrovare forme smarrite, l’accento, il colore, una luce nel tratto mutevole di una scena dove si conserva lo sguardo, la dolcezza dolorosa del tempo.
Un paesaggio in cui si intrecciano e si confondono le nostre categorie di essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e invisibile.
Il paesaggio sembra costituirsi nel senso, nella metafora, nell’eventicità del viaggio. Le città dove prende origine il paesaggio segnano il continuo orizzonte dell’inquietudine, dell’attesa, dell’intermittenza, dello sguardo interiore.
Il paesaggio a Venezia potrebbe essere considerato il momento espressivo quasi in una sorta di originarietà. Attilio Melo esplora la città come in una simbologia mitica, senza fine: le atmosfere, le luci, il colore, le ombre; tutto ciò che in una struttura compositiva rappresenta uno sfondo indicibile.
Nell’accostamento a questi temi, visioni nell’arte, appare prezioso un richiamo, sia pure sintomatico, alla pagina letteraria, poetica.
Le bellissime Ore italiane di Henry James iniziano con Venezia.
Il libro di Ernst Bloch, Geographica, ha un capitolo suggestivo già nel titolo Notte italiana a Venezia: il perpetuum mobile della bellezza lontana dalla terra ferma, della malinconia. In Attilio Melo Venezia diviene la lingua dell’inconscio, della vita che appare e svanisce: l’acqua, i canali, le gondole, le architetture nella loro leggerezza e velatura quasi a dire il vento caduco del tempo.
Milano esprime la suggestione, una punta di ferialità del quotidiano, dei giorni uguali ai giorni che scompaiono nella neve. Nelle spiagge di Santa Margherita, o in Versilia, il paesaggio si apre al mare, al cielo nel segno della lontananza, della nostalgia.
I paesaggi di Parigi sembrano custodire, entro ruvidi caseggiati (Montmartre), la vita misteriosa dell’arte. A Londra ritroviamo un’aura di aristocrazia in un leggero enigma, a New York il paesaggio si apre a un alfabeto dell’immensità umana.
C’è un’affermazione di Attilio Melo (nel 1994) che può confermare la concezione del paesaggio nella presenza, nelle apparenze, nel viaggio, ma anche nella memoria profonda dell’assenza, di un’intima evocazione: «Continuo a pormi il problema di rendere nei miei quadri l’atmosfera gioiosa o malinconica delle sue stagioni. Mi auguro, quindi, che i dipinti esposti alla Galleria Ponte Rosso, possano far rivivere questi stati d’animo, questi momenti di felicità e d’amore».
Appaiono significativi due aspetti ricorrenti nello scorrere del paesaggio in Attilio Melo: un lieve grigio di nebbia e il bianco della neve. Aspetti che riconfermano il passaggio da una spazialità empirica al tempo della coscienza, della soggettività.
La velatura di grigio appare esemplarmente nei paesaggi di Venezia, di Londra: atmosfera rarefatta, assenza, colore e luce dell’anima.
Sorge un richiamo alla poesia di Eugenio Montale per il connotato poetico del grigio («memoria grigia», «nebbia di sempre») nell’esprimere il sentimento del ricordo, del congedo.
Ritroviamo la neve, il bianco soprattutto nei paesaggi di Milano: la trama multiforme della città entra nel bianco, nella percezione vasta e misteriosa del tempo e del non tempo.
Quasi in un momento di collegamento tra il paesaggio e i ritratti può considerarsi il tema dell’interno di cui figurano in mostra due quadri di grande suggestione: Interno della casa al mare e Il baule rosso.
Nella finitezza di uno spazio si svolge la trama più viva e imprevedibile del quotidiano, degli oggetti che via via possono essere l’intermittenza della pittura. Ritroviamo i vestiti, la poltrona, il baule, un mazzo di fiori, una figura femminile, i quadri alla parete. Qui, nell’interno, si consumano le partenze e i ritorni, gli strumenti umani, il varco dei colori, la pittura nella pittura, il mistero del tempo.
Oggi, più di ieri, può essere apprezzata la dedizione di Attilio Melo al ritratto. Nell’orizzontalità dei linguaggi, della superficie mediatica, tecnologica, rivive in questo pittore quel dato di evento, di esistenza che è l’esplorazione del volto. Tanti personaggi hanno posato per lui, dalla politica, al teatro, al cinema, alla danza. Menzioniamo Giorgio Strehler, Vittorio Gassman, Valentina Cortese, Liliana Cosi, Sophia Loren (della quale è presente significativamente in mostra il quadro). Il volto è irriducibile a una teoria, sfugge a una grammatica formale. Attilio Melo ha compiuto questo viaggio nei ritratti che sono quell’atto misterioso di una solitudine, di una nostalgia, di una bellezza femminile quasi in un velo struggente della caducità.
Due ritratti si presentano in mostra con una singolarità: per la moglie e per la figlia Paola nell’infanzia. Il quadro alla moglie ha un’intensità di presenza, di tratto signorile con un senso di pensosità nel volto appoggiato al gesto della mano. La figlia bambina ha una vivezza di colori e quell’atto indicibile degli occhi, dello sguardo, dello stupore.
La mostra offre anche l’occasione di accostare alcuni disegni (soprattutto figure femminili). Si coglie nel fascino di questi disegni un senso del tempo come inveramento, “durata”, memoria. Rispetto alla pittura, il disegno sembra esprimere un’espressione più intima, diaristica: tra leggerezza e leggera ossessione, è la vita stessa che appare e svanisce, nella mutevolezza, nel bianco e nel nero.
possiamo ritrovare il fascino di un orizzonte tematico e una singolarità espressiva.
Attilio Melo è nato a Padova da una famiglia veneziana di artisti, è vissuto a Milano. Ciò che contraddistingue la sua biografia è da una parte l’intensa vita di incontri e di relazioni nel suo studio, e dall’altra parte il viaggio nei luoghi e nelle città che segnano la pittura.
Pare di intuire una riservatezza e l’apertura umana; la fedeltà alle ragioni della pittura e una sorta di segretezza emotiva.
Così sembrano coniugarsi nel vissuto dell’opera il paesaggio e la straordinaria dedizione ai ritratti, la natura e la figura umana, lo spazio dei viaggi e la temporalità dell’esistenza.
Nella vastità iconica del paesaggio, Attilio Melo persegue una propria visione di spazio e tempo: la trascrizione interiore, l’esprit, essenza, poesia, Stimmung, tocco, un’atmosfera perduta. Il paesaggio
qui non si pone nei termini di un “genere”, di una traduzione naturalistica.
Oggi continuamente la riflessione si interroga sulla fine della lingua, il compimento dell’arte, la caduta dell’evento. Il paesaggio invece è sentimento dell’esistenza: l’esigenza di ritrovare forme smarrite, l’accento, il colore, una luce nel tratto mutevole di una scena dove si conserva lo sguardo, la dolcezza dolorosa del tempo.
Un paesaggio in cui si intrecciano e si confondono le nostre categorie di essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e invisibile.
Il paesaggio sembra costituirsi nel senso, nella metafora, nell’eventicità del viaggio. Le città dove prende origine il paesaggio segnano il continuo orizzonte dell’inquietudine, dell’attesa, dell’intermittenza, dello sguardo interiore.
Il paesaggio a Venezia potrebbe essere considerato il momento espressivo quasi in una sorta di originarietà. Attilio Melo esplora la città come in una simbologia mitica, senza fine: le atmosfere, le luci, il colore, le ombre; tutto ciò che in una struttura compositiva rappresenta uno sfondo indicibile.
Nell’accostamento a questi temi, visioni nell’arte, appare prezioso un richiamo, sia pure sintomatico, alla pagina letteraria, poetica.
Le bellissime Ore italiane di Henry James iniziano con Venezia.
Il libro di Ernst Bloch, Geographica, ha un capitolo suggestivo già nel titolo Notte italiana a Venezia: il perpetuum mobile della bellezza lontana dalla terra ferma, della malinconia. In Attilio Melo Venezia diviene la lingua dell’inconscio, della vita che appare e svanisce: l’acqua, i canali, le gondole, le architetture nella loro leggerezza e velatura quasi a dire il vento caduco del tempo.
Milano esprime la suggestione, una punta di ferialità del quotidiano, dei giorni uguali ai giorni che scompaiono nella neve. Nelle spiagge di Santa Margherita, o in Versilia, il paesaggio si apre al mare, al cielo nel segno della lontananza, della nostalgia.
I paesaggi di Parigi sembrano custodire, entro ruvidi caseggiati (Montmartre), la vita misteriosa dell’arte. A Londra ritroviamo un’aura di aristocrazia in un leggero enigma, a New York il paesaggio si apre a un alfabeto dell’immensità umana.
C’è un’affermazione di Attilio Melo (nel 1994) che può confermare la concezione del paesaggio nella presenza, nelle apparenze, nel viaggio, ma anche nella memoria profonda dell’assenza, di un’intima evocazione: «Continuo a pormi il problema di rendere nei miei quadri l’atmosfera gioiosa o malinconica delle sue stagioni. Mi auguro, quindi, che i dipinti esposti alla Galleria Ponte Rosso, possano far rivivere questi stati d’animo, questi momenti di felicità e d’amore».
Appaiono significativi due aspetti ricorrenti nello scorrere del paesaggio in Attilio Melo: un lieve grigio di nebbia e il bianco della neve. Aspetti che riconfermano il passaggio da una spazialità empirica al tempo della coscienza, della soggettività.
La velatura di grigio appare esemplarmente nei paesaggi di Venezia, di Londra: atmosfera rarefatta, assenza, colore e luce dell’anima.
Sorge un richiamo alla poesia di Eugenio Montale per il connotato poetico del grigio («memoria grigia», «nebbia di sempre») nell’esprimere il sentimento del ricordo, del congedo.
Ritroviamo la neve, il bianco soprattutto nei paesaggi di Milano: la trama multiforme della città entra nel bianco, nella percezione vasta e misteriosa del tempo e del non tempo.
Quasi in un momento di collegamento tra il paesaggio e i ritratti può considerarsi il tema dell’interno di cui figurano in mostra due quadri di grande suggestione: Interno della casa al mare e Il baule rosso.
Nella finitezza di uno spazio si svolge la trama più viva e imprevedibile del quotidiano, degli oggetti che via via possono essere l’intermittenza della pittura. Ritroviamo i vestiti, la poltrona, il baule, un mazzo di fiori, una figura femminile, i quadri alla parete. Qui, nell’interno, si consumano le partenze e i ritorni, gli strumenti umani, il varco dei colori, la pittura nella pittura, il mistero del tempo.
Oggi, più di ieri, può essere apprezzata la dedizione di Attilio Melo al ritratto. Nell’orizzontalità dei linguaggi, della superficie mediatica, tecnologica, rivive in questo pittore quel dato di evento, di esistenza che è l’esplorazione del volto. Tanti personaggi hanno posato per lui, dalla politica, al teatro, al cinema, alla danza. Menzioniamo Giorgio Strehler, Vittorio Gassman, Valentina Cortese, Liliana Cosi, Sophia Loren (della quale è presente significativamente in mostra il quadro). Il volto è irriducibile a una teoria, sfugge a una grammatica formale. Attilio Melo ha compiuto questo viaggio nei ritratti che sono quell’atto misterioso di una solitudine, di una nostalgia, di una bellezza femminile quasi in un velo struggente della caducità.
Due ritratti si presentano in mostra con una singolarità: per la moglie e per la figlia Paola nell’infanzia. Il quadro alla moglie ha un’intensità di presenza, di tratto signorile con un senso di pensosità nel volto appoggiato al gesto della mano. La figlia bambina ha una vivezza di colori e quell’atto indicibile degli occhi, dello sguardo, dello stupore.
La mostra offre anche l’occasione di accostare alcuni disegni (soprattutto figure femminili). Si coglie nel fascino di questi disegni un senso del tempo come inveramento, “durata”, memoria. Rispetto alla pittura, il disegno sembra esprimere un’espressione più intima, diaristica: tra leggerezza e leggera ossessione, è la vita stessa che appare e svanisce, nella mutevolezza, nel bianco e nel nero.
Nell’accostare l’opera di Attilio Melo sono andato a riaprire la bella biografia Renoir mio padre scritta dal figlio regista cinematografico Jean Renoir. È riportata una frase del grande artista: «In pittura non ci sono poveri». In pittura tutto si privilegia, tutto entra nella vita segreta dello sguardo.