1989_Levi - Attilio Melo - Pittore

Attilio Melo
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Paolo Levi
Presentazione al volume "Attilio Melo", Fantigrafica, Cremona dicembre 1989      Torna alla pagina "Critica"


E' cosa bella parlare di pittura. Ma di quale periodo? se si tratta di questo andiamo per la verità male. In questi ultimi anni, infatti, non pochi giovani hanno riscoperto il gusto di fare pasticci sulla tavolozza, ma è vera pittura questa? E' inutile mentire, questo fenomeno che attualmente investe le gallerie e i musei internazionali non rappresenta affatto il prosieguo della tradizione. Questi apprendisti stregoni sostengono, in compagnia di certi critici che giurano su di loro, che eseguire brutti quadri è la dimostrazione chiara e lampante che questo antico mestiere, che dovrebbe coniugare forza poetica con serio artigianato, non ha più ragione di essere.
Quando parliamo allora di pittura, o meglio di pittori, ci riferiamo a quel gruppo di veri artisti, i quali, pur tra diverse difficoltà, soprattutto psicologiche, operano secondo i canoni della tradizione, cioè della cultura.
Quando tempo fa ho visitato l’atelier milanese di Attilio Melo mi sono trovato personalmente in una situazione strana ed insolita. Da una parte mi sono lasciato prendere da una pittura che testimonia della fusione dei due elementi basilari di poeticità e di vera mano d'artista, dall'altra però mi sono sentito addosso lo sguardo indagatore di questo maestro legato fortemente ai canoni del passato.
In questo suo gioco degli occhi, ho immediatamente captato che si può operare in modo eccelso, come Melo, e contemporaneamente sentirsi fuori dal tempo. E' stato lui che mi ha, in fondo, suggerito queste riflessioni. Durante la visita tra queste sue opere recenti e vecchie, belle e a volte struggenti, non gli ho dato alcuna risposta su cosa penso dei suoi quadri e, soprattutto, non ho fatto riflessioni ad alta voce sull'attuale rapporto tra tradizione e neoavanguardia. Desidero però farlo ora, grazie a questi dipinti che rappresentano la storia di un uomo che in questi decenni ha saputo resistere a tutte le sirene della ricerca estetica. Dal secondo dopoguerra ad oggi abbiamo assistito al passaggio sul palcoscenico dell'arte numerose tipologie d'avanguardia, con messaggi tutt'altro che messianici. Anzi. Decretare, infatti, la fine dell'arte è soprattutto sinonimo di fine della vita. In questi ultimi quarant'anni abbiamo subito, da certi novelli soloni, dogmatici messaggi, sovente porti con fare arrogante. Chi come Melo credeva in sé, nel proprio lavoro, deve per un attimo essersi impaurito. Pensiamo che egli essendo un uomo morale, per un attimo abbia pensato di avere torto. Ma egli, artista autentico, non poteva tradire il proprio passato, la propria storia, il mondo vero, mutante, che chiede solamente di essere interpretato. Melo, poi, se fosse passato al di là della staccionata avrebbe tradito anche il padre, degno maestro che ben conosceva l'antica arte dell'affresco.
Egli porta nel proprio cuore e nella propria mente la tradizione, che però non va confusa con l'accademia.
Sarebbe infatti consigliabile che tutti quei ricercatori di nuovi mondi estetici conoscessero prima la grammatica, quella che con così grande talento conosce Attilio Melo. Solo così, costoro potranno in seguito permettersi il lusso di essere contro la tradizione e fare discorsi alternativi ad essa.
Melo non è affatto fuori dalla storia e dal suo tempo, i suoi paesaggi, le sue figure, sono infatti dati reali. La luce è l'autentico gioiello delle sue composizioni. Una luce così non può essere inventata. Ho ancora in mente il dipinto che raffigura il Bacino di S. Marco da S. Giorgio. L'azzurro solcato dalle nubi ha una trasparenza piena di fremiti. Il cielo è alto: si tratta di un giusto trucco prospettico, il quale permette che una 'riga' di case (a mo' di promontorio) faccia da cromatico segno di orizzonte, da linea di divisione tra cielo e mare. Desidero parlare di questo quadro per indicare due elementi della pittura del Nostro: egli coniuga il reale vissuto con l'unica grammatica possibile che è la materia pittorica, la quale per comunicare diviene struggente.
Noi che consumiamo quotidianamente immagini abbiamo bisogno di una sola cosa: quella di comprendere il raffigurato. Ora, il messaggio che ci viene da queste composizioni è uno solo: la vita delle cose (ad esempio il paesaggio), può essere poeticamente trasfigurata, ma non modificata e offesa. Egli, come ogni autentico poeta, è totalmente meditativo nella stesura del dipinto e tutto teso nel trattenere l'attimo che fugge di quella data intensità luminosa.
Uno dei suoi quadri splendidi, Il Tamigi da Lambhet Bridge, un lirico omaggio a Londra, è tutta una musicalità di passaggi cromatici, in cui si fondano insieme il bianco con l'azzurro e questo con il rosa. Se non ci fosse il gioco prospettico, sottile, dei palazzi-linea, lungo le due rive del fiume, potrebbe trattarsi quasi di una composizione informale.
Non mi sento, comunque, di aderire quando si dice che Attilio Melo non ha coerenza stilistica, che molti suoi lavori sono sovente troppo dissimili gli uni dagli altri. A questo appunto desidero rispondere con una domanda: ogni luogo del mondo non è sempre differente l'uno dall'altro? Londra non è diversa da Parigi, come cielo ed aria, Milano non è forse l'opposto di Venezia? Le città hanno tutte una propria atmosfera, come ad esempio le persone hanno una loro precisa individualità. Attilio Melo, quindi, da perfetto rabdomante coglie di un certo angolo del mondo (che egli vive in meditazione) la precisa, soggettiva, sensazione luminosa di un preciso angolo-segno.
Un'altra abitudine dei giovani che hanno ripreso l'arte della pittura, è quella di usare la macchina fotografica come strumento sostitutivo all'appunto che un tempo si prendeva sul notes. Ma questo non è ancora nulla: in più questi neo-maestri proiettano la diapositiva sulla tela e poi dipingono lungo il tracciato. Invece Attilio Melo va fuori, all'aperto e là s'ispira, opera. Egli con questo comportamento rappresenta fortunatamente la cultura della continuità. Oggi, è inutile nasconderlo, c'è una generale crisi dei valori.
Grazie, ad esempio, allo strumento televisivo si disimpara a pensare con la propria testa e a leggere; grazie ai mezzi di locomozione non si prova più la gioia di camminare. Con la scusa che solo con la ricerca estetica in continuo rinnovamento c'è progresso, scopriamo che anche in questo campo si perdono certe preziosità, certe ricchezze soprattutto di contenuto.
Questo di Attilio Melo è una specie di corpo a corpo con l'atmosfera della natura, del paesaggio. Egli chiede come tutti i veri maestri (non lo chiese anche Monet?) la verità come traguardo. Egli, come gl'impressionisti, respinge come facoltà esiziale la memoria ed è proprio questo vivere nel luogo prescelto con attenzione, lo porta a continue verifiche delle sensazioni. Egli non può, ad esempio, dimenticare la solitudine di un piccolo cane sperso tra la neve in via Festa del Perdono. Per l'osservatore è semplicemente una macchia nera, che ancora di più accentua la luminosità della neve, per me, invece, rappresenta soprattutto quella parte di Attilio Melo che mai dimentica che ogni pur minimo particolare del Creato è poesia.
Conosco pochi artisti, (li abbiamo avuti purtroppo solo nel passato) che come lui abbiano questa straordinaria capacità di aderire perfettamente con i propri mezzi pittorici alla irrealtà reale del tempo, del luogo, dell'ora in cui deve operare.
In effetti ciò che colpisce in questo solitario maestro del colore è la sua forma mentis, la sua civile serietà nell'affrontare e risolvere i problemi della pittura. Il suo è un atteggiamento che coinvolge anche il suo essere culturale fatto di aspirazione e di aneliti. La sua disciplina morale lo porta anche nei ritratti ad essere teso, in una volontà d'essere sempre vicino al vero.
Nel bellissimo ritratto in cui appare raffigurata la moglie, così come in tutti gli altri, senza eccezione alcuna, egli spera con senso dell'equilibrio, mai tentato da alcun accademismo, avendo come unico anelito la conoscenza, e il desiderio di penetrare il reale. Il ritratto per Melo significa comunicazione. Ogni viso da affrontare è per lui un nuovo linguaggio da elaborare. Melo guarda con dolcezza il passato, assimila attraverso l'esercizio quotidiano della pittura l'energia che proviene dalle forme eterne della natura. Spetta a maestri come lui di sollevare da questo magnifico mondo tangibile il velo. Egli affonda le proprie radici nella pittura veneta, in certe trasparenze, malinconiche, lontane.
Il compito, invece, che attende a noi che scriviamo è quello doveroso del battistrada, il quale invita a leggere con la dovuta attenzione queste atmosfere fluttuanti, questo gioco di luci e di ombre nate dall'esperienza antica della pittura, di un pennello intinto e steso al momento giusto, di una spatola che sa dove deve fermarsi.
Attilio Melo sa definire le masse eleganti degli alberi, quelle statiche delle case, quelle multicolori e squillanti dei giardini, sa trascolorare la fluttuante atmosfera delle città che ama.
Venezia, è inutile sottolinearlo, è il suo Paradiso ritrovato.
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