1978_Fabiani - Attilio Melo - Pittore

Attilio Melo
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Enzo Fabiani
Presentazione al volume "Melo", Silvia Edizioni, Milano 1978      Torna alla pagina "Critica"


Per capire e valutare giustamente ed appieno l'arte di Attilio Melo, e cioè il suo modo di far pittura oggi così raro da apparire o sorprendente o desueto, più che una lettura in chiave polemica e quindi nostalgica, penso sia utile il cercare di vederne subito e attentamente le ragioni interiori e culturali. Non serve molto cioè, e anzi alla fine può risultare deviante, l'indicare in questo tipo di pittura, in questo mondo poetico soltanto una precisa e determinata contrapposizione a quella vacua e scaltra letteratura, formata di detriti estetici ed ideologici, che, svuotando e sbriciolando l'arte, ha portato a superficiali e quindi inutili sperimentalismi.
Non serve molto dicevo, perché Melo non si è proposto né si propone, credo, la Controriforma: egli cioè non resta fedele alla tradizione per sbeffeggiare chi la rifiuta e non è capace di seguirla, ma semplicemente perché sente suo dovere approfondire quella che è la sua visione della realtà, senza ricorrere a forzature e strumentalizzazioni né in senso avanguardistico né in senso tradizionalistico.
Ad Attilio Melo, uomo colto e attento osservatore dello “spettacolo” artistico di vari decenni, sarebbe bastato poco, come è stato già rilevato, lanciarsi con i cosiddetti innovatori e diventare “di punta”: gli sarebbe bastato magari fare un cielo nero, blu o giallo dietro le sue figure; oppure rendere il viso di una signora simile a quello di un pugile, per apparire nuovo, per essere proclamato, da certi critici smaniosi, vessillifero della pittura esistenziale e implacabile accusatore dei mali con i quali le cieche divinità torturano l'uomo.
Poteva farlo facilmente, perché sa disegnare benissimo e ha una padronanza perfetta della tavolozza (ha sempre disegnato e dipinto dal vero, quindi conosce bene occhi e mani, cieli ed alberi); ma non lo ha fatto per onestà, e si è rifiutato perciò di correre le avventure alle quali non si sentiva portato e nelle quali non credeva.
E così è rimasto a combattere la sua «battaglia» con mezzi diciamo artigianali e impegnandosi a seguire gli insegnamenti di una «strategia» tradizionale: il primo dei quali, il più diretto, gli veniva da un uomo, e cioè suo padre, che della pittura, e specialmente di quella a fresco, conosceva ogni segreto e sfumatura in modo eccezionale.
Essendo poi suo padre veneziano e innamorato del Tiepolo, ecco che Attilio ereditò da lui anche l'amore per la luce, per i colori splendidi e leggeri, per le visioni di una bellezza sognata eppur densa e succosa. Ecco, questo è un punto da tener presente per capire le ragioni interiori e culturali della pittura di Melo; per vedere come egli abbia saputo trasferire quei veneziani trionfi e bagliori sulle proprie tele, e renderli poi più vicini a noi grazie a un linguaggio formatosi (è un'altra importante indicazione) in particolare sullo studio degli impressionisti come di alcuni maestri italiani di fine Ottocento.
Si è ricordato prima che Melo è colto, e informatissimo: ed allora, potrà domandarsi qualcuno, perché non ha sentito il bisogno di utilizzare in modo più diretto le conquiste fatte in seguito, dopo Manet, Degas eccetera?
Per rispondere occorrerebbe un lungo discorso, anche di natura tecnica, che dovrebbe affrontare molti problemi e interrogativi: e alla fine del quale saremmo probabilmente allo stesso punto, alla stessa domanda: e cioè se e quanto l'autenticità dell'arte sta nella contemporaneità o nell'anticipazione tra parola e cronaca, tra espressione e storia, o se invece è possibile la profondità del discorso anche quando si ricorra a mezzi diciamo stagionati a misure che siano legate a una meditazione pacata, piuttosto che a variamente profetici furori.
Per accorgersi alla fine, magari molto tempo dopo, che il messaggio più autentico e profondo ci era stato offerto da chi aveva usato le parole più semplici: pensiamo alla storia della poesia... Attilio Melo si è imposto anche in campo intemazionale come ritrattista di personaggi famosi (e basti ricordare il suo bellissimo ritratto di Arturo Toscanini) e di splendide donne: dei quali e delle quali ha saputo, e sa cogliere personalità e aspetto con musicale grazia e intelligenza.
Certo, questi motivi sono spesso condizionati (anche i grandi ritrattisti del passato, salvo rari casi, dovettero, come si sa, rispettare obblighi e magari capricci); quando però Melo è pienamente libero, ecco che dipinge quadri come “La danza”, che ha come protagonista Liliana Cosi: protagonista perché il maestro ha saputo cogliere, oltre alla somiglianza, lo spirito stesso della danzatrice, il suo essere cioè un corpo imbevuto di musica, e da essa trasfigurato e portato in un ritmo di arcana naturalezza.
Il secondo grande amore di Attilio Melo è il paesaggio, nel quale, come scriveva nel 1974 Enrico Piceni presentando il volume Melo: 15 opere edito da Pizzi: «...il mondo, questo vecchio mondo così ignorato oggi dai cerebralismi e dalle trovate dell'arte moderna è tutto suo, da godere e da penetrare. Via, via, dall'Isola d'Elba alla Calabria, da Parigi a Londra quanti attimi fuggenti da cogliere sul volto eterno della natura. E come muta, in queste visioni di paesi la tecnica del nostro pittore: più libera, più varia, più sciolta, più sbarazzina. Curioso a dirsi, poi, quasi per un'intima rivalsa la figura umana è esclusa dai paesaggi, o ridotta a minuscole macchie di colore. E' l'ora del tempo e la - dolce o meno dolce - stagione che interessano il pittore: il tremito argenteo degli ulivi, il lieve respiro di una messe d'oro, le luci radenti di un tramonto in riva al mare».
E' giusto: qui la tecnica muta, si fa più libera e più varia; e potremmo dire che la musica cambia genere, da classica diventa cioè popolaresca, da descrittiva si fa più allegramente profonda, comunicandoci la bellezza del mare e del cielo, la solennità di un albero o di un fiore; oppure la semplice monumentalità dei vecchi edifici, l'ombra misteriosa delle piazze. Lo sguardo e il pennello corrono felici e non soltanto per un'intima rivalsa nei confronti della figura, quanto per una consonanza più vera e forse più accorata.
Quel che colpisce poi, anche qui, dove i protagonisti sono appunto i prati o i palazzi, i fiumi o il mare, è come Attilio Melo riesca a rendere perfettamente e squisitamente le caratteristiche di un dato paesaggio, di una data atmosfera. Ci sono pittori che, dipingano la Maremma o una via di Parigi, usano sempre gli stessi colori e impostano ogni quadro allo stesso modo (spesso ahimè cartolinescamente), senza rendersi conto del dominio che il motivo ha e deve avere sul quadro (se si ricordassero di  Cézanne!), della forza diversa della luce e della diversa sostanza delle cose: Melo invece è, direi, simile a un grande esecutore che si mette al servizio ora di Bach ora di Beethoven: interpretandone la musica con sensibilità personale si, ma senza violentare forma e sostanza.
Questo significa che il Nostro non solo rispetta diciamo il Sommo Autore della natura, ma cerca di capire fino in fondo quel che la rende viva, e cioè il palpito derivante alle cose dalla linfa e dalla luce.
Si vedano ad esempio le «Venezie» di Melo, e si noti come egli sia riuscito a far diversi, e cioè suoi, quei motivi stradipinti e arcinoti; come egli sia riuscito a creare una sua Venezia senza cadere nei kokoschkismi o nei guidismi, senza risentire cioè dei furori espressionistici o delle disincarnazioni intimistiche o liricheggianti.
E lo stesso dicasi delle vedute londinesi: il Tamigi, i giardini rivelano appunto quello «spirito del luogo» in modo tale che ci appaiono così reali che ci sembra di respirare l'aria (un risultato che si potrà dire curioso, ma che soltanto la pittura vera riesce a dare senza richiedere sforzi d'immaginazione, né costrizioni visive ...).
Piceni concludeva la sua presentazione dicendo che Attilio Melo ha trovato il sigillo della sua personalità «senza forzature e senza funambolismi, seguendo la via più lunga e meno agevole: quella del lavoro assiduo, spontaneo, alieno da 'programmi'»; e l'ha trovato lavorando con umiltà in un periodo in cui non c'è stata certamente molta tenerezza per gli artisti che come lui restavano fedeli a se stessi, e stimavano più Renoir del neorealista X o dell'astrattista Y, certi che la pittura ha bisogno più di sensibilità (diciamola pure la tremenda parola!) e di umiltà che di opportunismo e di «trovate». (Ed ora che anche in questo fluido e misterioso settore, in questa miniera piena di tanti falsi anche se splendenti diamanti, molti cominciano ad accorgersi che...).
Comunque sia, e comunque vada, è evidente che Attilio Melo ha saputo resistere ai giochi, ed è stato ed è felice quando ha saputo restituire mediante la pittura la bellezza delle persone, come lo spirito delle cose; felice di sentirsi guardato almeno con affetto e simpatia da un Manet come da un Utrillo, mentre portava avanti il suo discorso semplice e luminoso; felice, ma anche cosciente dell'impegno che doveva assolvere e che richiedeva, e richiede, l'approfondimento di una pittura come la sua. Egli ha scelto insomma una ben maggiore responsabilità: nella coscienza, tuttavia, che è soltanto facendo vera pittura, e non di proposito avanguardistico o tradizionalismo, che si è, e si rimane, nel proprio tempo testimoni di umana, eterna poesia.
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