1978_Della Giovanna - Attilio Melo - Pittore

Attilio Melo
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Ettore Della Giovanna

Da"Melo paesaggi", Galleria Ponte Rosso Edizioni, Milano 2001     Torna alla pagina "Critica"


Mio caro Attilio,
nel silenzio di un pomeriggio domenicale, una musica lontana - Chopin? - richiama alla mia memoria una canzone francese di quand'ero giovane, fatta di poche parole e di poche note staccate suonate su un pianoforte. Naturalmente non ne ricordo l'autore, ricordo il titolo, “Les enfants s'ennuyent le dimanche”. Ricordo anche, che il motivetto delizioso era tratto da un rondò di Beethoven. Mi affaccio sul giardino: una sola finestra è aperta in fondo, oltre le saliciflòre. Il suono viene certamente di là, attutito dall'afa estiva. Penso ad una fanciulla che si annoia, forse attende una telefonata, forse non attende nulla. Rientro e prendo le Complaintes di Jules Laforgue. Trovo subito la “Complainte des pianos qu'on entand dans les quartiere aisés ”. Dirai che era inevitabile. Me ne rendo conto, ma è così difficile controllare il corso dei propri pensieri, e leggo:

« Jolie ou vague? Triste ou sage? encore pure?
O jours, tout m'est égal? ou, monde, moi je veux?
Et si vierge, du moins...
«Mon Dieu, à qui donc révent-elles?
A des Rolands, à des dentelles?
«Coeurs en prison,
Lentes saisons! ...»

Ripongo il poeta crepuscolare afflitto dalla stanchezza dei giorni vuoti, dalla desolazione delle domeniche, minato dalla tisi, e il mio sguardo vaga da uno scaffale all'altro della libreria. Possibile che fra tante opere scelte con amore, non ve ne sia una che oggi mi dia sollievo? Cammino su e giù, leggo pigramente i titoli impressi in oro sulle preziose rilegature. Ahimè, è come fare un esame di coscienza. Misuro la mia ignoranza, e misuro il tempo che mi resta da vivere. San Tommaso diceva: “Timeo hominem unìus libri ”, intendendo la sua paura di un uomo che abbia letto un solo libro, ma che lo possieda tutto. Non uno, di questi libri, posseggo come vorrei, se non come dovrei.
Dal rio giunge il rumore sordo di un motoscafo che attracca alle paline, e cessa il suono del pianoforte. Sarà arrivato finalmente il Rolando atteso dalla vergine.

«Tu t'en vas et tu nous quittes,
Tu nous quitt’s et tu t'en vas!
Couvents gris, choeurs de Sulamites,
Sur nos seins nuls croisons nos bras».

Sono solo, la mia Sulamita a quest'ora sorride al sole e al mare del Lido. Potrei farle la sorpresa di raggiungerla, ma per prendere questa decisione, grave quando le membra sono intorpidite come la mente, mi lascio andare su una poltrona. Non l'ho scelta, era lì, la più vicina, ed è quella dalla quale meglio si osserva il quadro che Tu mi hai donato pochi mesi fa, quel Canale della Giudecca che entrambi amiamo, con l'Isola di San Giorgio che sorge dal rosa e dal bianco di un prodigioso cielo veneziano. Di questo quadro, conosco oramai, ogni segno, ogni sfumatura, ogni onda, ogni legno del pontile dov'eri per dipingerlo. L'ho cambiato di posto durante le vacanze di Pasqua, adesso è nella giusta luce, è trasparente come Venezia in certe ore magiche: sono davvero contento. Guardarlo è sempre un piacere; talvolta, come oggi, anche motivo di conforto.
E' difficile, ti dicevo, se non impossibile, dominare i propri pensieri. Alcuni critici, che purtroppo, per dovere professionale, non posso non tentare di decifrare, hanno ingarbugliato il mio cervello, e rifletto che se essi mi vedessero in questo momento, riderebbero di me. Sai meglio di me come son fatti. Non solo direbbero, e con ragione, che non sono un intellettuale, ma vorrebbero anche dimostrarmi nel loro gergo esoterico, che il mio piacere nell'ammirare questo quadro, è infantile, o da provinciale, summa injuria! Poi, magari, per essere garbati, lascerebbero intendere, come si usa oggi, che sono un qualunquista. La pace sia con loro.
Intellettuale non sono, e sono troppo avanti negli anni per cercare di diventarlo, ma rimbambito ancora no. Ebbene, mi scherniscano pure, ma non tutti i miei ricordi sono sepolti in latèbre arteriosclerotiche.
L'indolenza mi impedisce di compiere qualche rapida ricerca nei miei libri, che oggi mi fanno paura, ma sono pur certo che molti  sapienti, da Platone a Baumgarten, signori di non poco conto, mi hanno insegnato, che l'arte intesa come espressione umana di un mondo interiore in opere di bellezza raffiguranti un mondo esteriore - natura, realtà - non è mai disgiunta dal concetto di piacere, del piacere che si prova nel creare quelle opere, o nel rimirarle. Un tal godimento ha da essere per forza ingenuo? E se lo fosse, sarebbe peccato? Si rilegga «The Sense of Beauty» di Santayana, anch'io dovrei farlo, e si ritroverà che la «facoltà del sentimento» di Kant, dalla quale dipende il giudizio estetico, porta all'arte e alla bellezza. Bellezza che è un piacere considerato come la «qualità di una cosa», quindi sempre un'emozione ed un’affezione.

E’ possibile, caro Amico, anzi, è probabile, che nell'inseguire queste idee un po' alla rinfusa, io faccia confusione fra Platone e Plotino, fra Aristotele e gli stoici, sebbene sia tutta gente che del piacere dell'arte ha dialogato … vedi di sbrogliartela Tu. Ad ogni modo, dati i tempi che corrono, capisco che devo coprirmi le spalle, e compio uno sforzo.
Mi alzo per sfogliare un trattato di un autore caro a Engels e a Marx, vedi caso anche a me, e leggo:
“Si potrebbe immaginare, scrive Georg Wilhelm F. Hegel, che l'artista debba raccogliere nel mondo esterno le forme migliori e riunirle, o debba fare una scelta delle fisionomie, delle situazioni... per trovare le forme più adatte al suo contenuto. Ma quando egli abbia così raccolto e trascelto, non ha ancora fatto nulla: perché l'artista dev'essere creatore, e nella sua propria fantasia, con la conoscenza delle forme e con un senso profondo e una viva sensibilità, deve spontaneamente e di un sol getto formare ed esprimere il significato che lo ispira...”

“...L'arte, in quanto si occupa del vero come dell'assoluto oggetto della coscienza, appartiene alla sfera assoluta dello spirito, e si colloca perciò, in base al suo contenuto, sullo stesso piano della religione e della filosofia. Giacché anche la filosofia non ha altro oggetto che Dio, ed è così essenzialmente una teologia razionale ed un perpetuo culto divino al servizio della verità”.

Ignoro se esista una definizione dell'arte da tutti accettabile, ma ho imparato che da quando, nel 1700, si è voluta fare la distinzione fra Arte meccanica ed Arte estetica, questa Arte estetica, che ha per scopo immediato il sentimento di piacere, è chiamata Arte bella, o Arte piacevole. Queste cose non le ho inventate io.

Pensa ti! Lo so bene che il ricorso alle citazioni nasconde povertà di idee e insicurezza, ma Tu stai preparando una nuova esposizione, ed io non sono un critico d'arte, quindi è già grande audacia da parte mia avventurarmi a parlare dei Tuoi quadri: mi occorrono validi puntelli, altrimenti non mi salvo da un capitombolo. Per la verità, il mio intendimento nello scriverTi, non era quello di ragionare intorno alla Tua pittura. Il primo moto dell'animo mio, proprio guardando il quadro che ho qui in casa, è stato di inviarti un rigo di ringraziamento per quel benedetto piacere di cui discorrevo poc'anzi. E' la riconoscenza che si prova per coloro che, offrendoci qualcosa di bello da ammirare, ci strappano dalle meditazioni tetre o grossolane o banali, alle quali è difficile sfuggire in questa nostra epoca in cui siamo soffocati dalla violenza, dai luoghi comuni, e dalle mode, da quelle mode che da un'ora all'altra, rendono celebre un uomo prima ancora che egli sia conosciuto. Consentimi allora, di dirti quanto profonda sia la mia stima per l'uomo Attilio Melo, grazie al cielo ben conosciuto. E poiché non è possibile disgiungere l'uomo dall'artista, mentre lascio il giudizio critico a chi è competente, nella speranza che quel desso sia in buona fede, mi prendo la libertà di lodarti per la Tua coerenza. Conosco, credo, quasi tutta la Tua opera, e conosco Te, quindi so apprezzare l'onestà che Ti ha sempre guidato, a prezzo di sacrifici e di tormenti non lievi. Con la Tua abilità, dimenticando arte, ingegno ed animus, se Tu avessi accettato un solo compromesso, sai quanti colleghi Ti saresti divorato in un batter di ciglia? E' il caso di dire, “a occhi chiusi". Se l'artista ha una missione educativa, la coerenza e l'onestà diventano ammaestramenti di grandissimo pregio, validi per tutti gli uomini liberi, e così, mi pare si confermi anche, che “il piacere estetico ha da essere disinteressato". (Chi lo diceva? Kant?). Mi si potrà osservare che gusto e cultura sono soggetti a continua evoluzione. E' vero, e va bene. La cultura, duemila anni fa, si chiamava humanitas, e serviva alla formazione dell'uomo; il gusto, forse da quattromila anni, conduce altri a compartecipare di un nostro sentimento di piacere, o di malinconia, quindi a darci una soddisfazione che con altri abbiamo in comune. Nobile, la cultura; nobilissimo, il gusto, sia perché tocca la sfera del sentimento, sia perché può rendere un sentimento universalmente comunicabile senza la mediazione dì un concetto, spesso astruso. Qualcuno potrebbe confutare la mia opinione sulla Tua pittura, sui Tuoi paesaggi suggestivi, sui Tuoi ritratti vivi e veri, ma sul piacere estetico che essa dà a me, e a tanti, tanti Tuoi estimatori, non v'è nulla da controbattere. In quanto al nostro gusto, del quale in questo caso siamo lieti e persino un poco fieri, chi può osare di disputare? E ora, Ti sarai reso conto che l'amicizia Ti ha costretto a tenermi compagnia in un pomeriggio di domenica, quando anche il pianoforte lontano ha taciuto.
Ti abbraccia il Tuo Ettore
Venezia, domenica 30 luglio 1978

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