E' naturale che un pittore per il quale il mondo esterno esiste, sia stato fortemente attratto dalla figura umana, oggi così bistrattata. Qui troviamo una serie delle sue opere migliori in questo campo. Generalmente giocare sugli azzurri o su ricche tonalità marrone, queste immagini ci vengono incontro dalla tela con una immediatezza, con una rapida spontaneità che non esclude l'approfondimento psicologico.
Sono ritratti mondani - diciamola la esecrata parola - perché sono ritratti di un certo mondo, ma non mai leziosi o artificiosi. Ogni soggetto è colto in una posa naturalissima e quella patina di sorriso che adorna ogni volto è filtrata con estrema sensibilità e con una sottile malizia che direi boldiniana (alludo qui ad un atteggiamento psicologico di interprete, non ad una questione di tecnica pittorica) da osservatore fedele che però sempre conserva un certo distacco da "storico". Dove invece Melo si è lasciato andare tutto al piacere di descrivere una giovine vita, è nel ritratto del ragazzo Vollmer, nel quale la ingenua freschezza del bimbo intento ai suoi giochi è umoristicamente sottolineata dallo sguardo attento e consapevole del suo fedele compagno. Ma se Attilio Melo ha "sfondato" come dipintore di adolescenti e di belle sorridenti dame, non bisogna dimenticare un altro importante aspetto della sua attività pittorica: quello del paesista. Si direbbe che, libero da ogni impegno di "commissione" il nostro artista ama tuffarsi nell'aria aperta, scorrazzare impaziente e gioioso come un ragazzo che abbia marinato la scuola. Via, via dall'Isola d'Elba, alla Calabria, al Tigullio, da Parigi a Londra: e come muta, in queste visioni la tecnica del nostro pittore: più li più varia, più sciolta. E' l'ora del tempo e la dolce - o men dolce - stagione che interessa il pittore: il tremito argenteo degli ulivi, il lieve respiro di una messe d'oro, le luci radenti di un tramonto in riva al mare.
A mio avviso però le cose più complete e più sentite di Melo in questo campo sono i "ritratti" di città o per meglio dire degli scorci più rivelatori delle città che egli predilige: Venezia, Parigi, Londra. Quel Tamigi a Westminster Bridge è proprio quale lo ricordiamo: grigio, freddo ma non ostile, anzi di una trattenuta cordialità britannica, così vasto di un respiro quasi marino.
E la Place St. Andrè des Arts a Parigi?
Qui Melo ha saputo cogliere con fare ardito, preciso e coinciso, l'inconfondibile accento. Solo un artista maturo e padrone dei propri mezzi poteva fermare di questo angolo di mondo tanto "pittoresco" una immagine così puramente pittorica, sfuggendo a tutte le tentazioni e le insidie di un soggetto che fatalmente invitava all'aneddoto, alla descrizione minuta e compiaciuta.
Sono ritratti mondani - diciamola la esecrata parola - perché sono ritratti di un certo mondo, ma non mai leziosi o artificiosi. Ogni soggetto è colto in una posa naturalissima e quella patina di sorriso che adorna ogni volto è filtrata con estrema sensibilità e con una sottile malizia che direi boldiniana (alludo qui ad un atteggiamento psicologico di interprete, non ad una questione di tecnica pittorica) da osservatore fedele che però sempre conserva un certo distacco da "storico". Dove invece Melo si è lasciato andare tutto al piacere di descrivere una giovine vita, è nel ritratto del ragazzo Vollmer, nel quale la ingenua freschezza del bimbo intento ai suoi giochi è umoristicamente sottolineata dallo sguardo attento e consapevole del suo fedele compagno. Ma se Attilio Melo ha "sfondato" come dipintore di adolescenti e di belle sorridenti dame, non bisogna dimenticare un altro importante aspetto della sua attività pittorica: quello del paesista. Si direbbe che, libero da ogni impegno di "commissione" il nostro artista ama tuffarsi nell'aria aperta, scorrazzare impaziente e gioioso come un ragazzo che abbia marinato la scuola. Via, via dall'Isola d'Elba, alla Calabria, al Tigullio, da Parigi a Londra: e come muta, in queste visioni la tecnica del nostro pittore: più li più varia, più sciolta. E' l'ora del tempo e la dolce - o men dolce - stagione che interessa il pittore: il tremito argenteo degli ulivi, il lieve respiro di una messe d'oro, le luci radenti di un tramonto in riva al mare.
A mio avviso però le cose più complete e più sentite di Melo in questo campo sono i "ritratti" di città o per meglio dire degli scorci più rivelatori delle città che egli predilige: Venezia, Parigi, Londra. Quel Tamigi a Westminster Bridge è proprio quale lo ricordiamo: grigio, freddo ma non ostile, anzi di una trattenuta cordialità britannica, così vasto di un respiro quasi marino.
E la Place St. Andrè des Arts a Parigi?
Qui Melo ha saputo cogliere con fare ardito, preciso e coinciso, l'inconfondibile accento. Solo un artista maturo e padrone dei propri mezzi poteva fermare di questo angolo di mondo tanto "pittoresco" una immagine così puramente pittorica, sfuggendo a tutte le tentazioni e le insidie di un soggetto che fatalmente invitava all'aneddoto, alla descrizione minuta e compiaciuta.
... Melo dunque ha trovato lui pure il famoso sigillo della personalità. L'ha trovato senza forzature e senza funambolismi, seguendo la via più lunga e meno agevole: quella del lavoro assiduo, spontaneo, alieno da "programmi". Diamogliene atto: non per invitarlo a dormire sugli allori, anzi per spronarlo ad insistere ad approfondire la conquistata personalità in entrambi i campi della sua attività di pittore. Un artista, un vero artista, piccolo o grande che sia, non è mai arrivato: anzi deve sempre credersi sul punto di partire.